venerdì 28 agosto 2009

San Francisco

San Francisco rimarrà a lungo nei nostri pensieri.

Arrivarci dopo il caldo torrido di una notte a Las Vegas, è stato come passare nelle vasche 40-15 dei Poseidon. Per chi conosce il parco termale, non c'è bisogno di spiegazioni, tutti gli altri sappiano che i numeri si riferiscono alla temperatura dell'acqua. La temperatura di San Francisco era esattamente la più bassa: nei momenti più tiepidi si raggiungevano anche 20 gradi, ma la sera si scendeva fino a 9, o 10. Il freddo, insieme alla nebbia che si diradava solo verso mezzogiorno, per ricomparire intorno alle 6 del pomeriggio, non ci ha ben disposte verso la città che ci è sembrata graziosa nel suo saliscendi vertiginoso di strade costeggiate da casette vittoriane, ma non un pezzo d'America imperdibile.
Le persone qui ci sono parse più anticonvenzionali che altrove. Sembrano più rilassate, più tolleranti, anche con i tanti derelitti che chiedono soldi agli angoli delle strade o rovistano nei cestini dei rifiuti.
I San Franciscani hanno facce più mescolate rispetto agli americani che abbiamo visto finora: gli afroamericani, i latinos, i cinesi e i giapponesi, hanno tratti che sfumano gli uni negli altri.
Le comunità orientali che vivono qui fin dall'800, sono americani a tutti gli effetti pur mantenendo tracce evidenti delle loro origini, come raccontano i negozi di Chinatown e Japantown.
Nei giorni che abbiamo passato qui, troppi, abbiamo girellato nei vari quartieri, senza perderci le attrazioni della città: il ventoso Golden Gate attraversato a piedi all'andata e al ritorno; il molo 39 con la colonia di leoni marini che ha scelto di abitarci; Lombard Street, una strada così ripida che, per renderla percorribile alle auto, hanno dovuto creare delle curve sinuose trasformandola in un percorso da trofeo automobilistico con tanto di spettatori lungo le curve; la Coit Tower, la bizzarra torre a forma di estintore che la signora Coit volle ereggere in onore dei pompieri di San Francisco di cui era appassionata sostenitrice; la cittadina di Sausalito, con il porticciolo turistico e torme di turisti come a Portofino; e infine i tram. C'è lo storico cable-car, un tram trainato da un cavo che corre sotterraneo affinché possa affrontare le salite più ripide, e i vecchi tram delle città europee e americane che l'amministrazione, con un'operazione davvero intelligente, ha comprato dalle aziende municipalizzate che li dismettevano, per farli diventare il fiore all'occhiello del sistema dei trasporti cittadino.
E' facile immaginare come, non sapendo tutto ciò, abbiamo strabuzzato gli occhi vedendo un vecchio tram milanese, quelli di legno che l'ATM negli ultimi anni ha sostituito con i terribili jumbo, viaggiare, perfettamente tenuto, con tanto di stemma della città di Milano, guidato da un autista rasta con i dreadlocks.

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giovedì 20 agosto 2009

Il Grand Canyon

è grande. E' tanto grande che non sembra un canyon. Assomiglia piuttosto a un'ampia vallata piena di spettacolari montagne.

Noi ci siamo arrivate al pomeriggio, nel bel mezzo di un temporale tuoni e fulmini. Abbiamo alloggiato a Tusayan, un accrocchio di hotel e ristoranti appena fuori dall'ingresso del parco, in un bosco di pini ponderosa che si estende fino all'orlo del burrone.
Il primo tramonto sul Canyon è stato cupo, freddo e grigio, sebbene all'orizzonte si accendesse una striscia infuocata.
Poi, nei due giorni successivi abbiamo cercato di affacciarci su questo spettacolo naturale evitando le migliaia di turisti. Siamo riuscite a scovare un paio di camminate facili al di fuori del giro infernale dei belvedere riuscendo a goderci qualche mezz'oretta di solitudine. Stare sul bordo del canyon e sentire solo il suono del vento che tra i pini assomiglia al rumore delle onde, è come stare su uno scoglio di fronte al mare: sai che è grande ma con lo sguardo non riesci a capire quanto. Così il Canyon: vedi decine di mesa, che in realtà sono montagne un po' piatte in cima, frutto di un'erosione geologicamente troppo veloce, e oltre, a parecchi chilometri di distanza, il bordo striato di bianco della sponda nord. Intuisci la grandezza, ma non vedi l'ampiezza del canyon principale, di quelli secondari che si confondono con le anse profonde del Colorado, per non dire delle centinaia di chilometri della lunghezza.
Insomma, un gran casino di canyon, di mesa, di bordi scoscesi e di strapiombi.
E' bello, perché è impossibile dire che quelle rocce, che continuano a cambiare colore e su cui le nuvole disegnano ombre sempre diverse, non compongano una scena magnifica, ma per noi è stato un po' come guardare una bellezza senza turbamento; immobile, immensa e distante.
Neanche l'immancabile giro in elicottero, che pure porta lo sguardo su prospettive inedite, è riuscito a farci sentire le emozioni provate a Canyonland. Lì davvero il paesaggio non è paragonabile a nulla visto finora dai nostri occhi e anche solo intuire lo sprofondo nelle viscere della terra è stato perturbante.
Ciò detto, camminando nei sentieri lungo il bordo era impossibile distogliere lo sguardo dal Canyon e l'ultimo tramonto, che era anche l'ultimo del nostro giro nei parchi, è stato in qualche modo nostalgico.
La domenica mattina, il giorno della nostra partenza, a Tusayan è arrivato Barack Obama, anche lui in visita al Grand Canyon con la famiglia. Noi ci siamo messe in fila sul bordo della strada insieme agli abitanti del villaggio, cioè i lavoratori degli hotel e dei ristoranti, e ai numerosi turisti. Abbiamo atteso che l'aereo del presidente atterrasse nel piccolo aeroporto accanto all'hotel, mentre la polizia preparava il percorso, chiudendo l'unica strada del paese e pattugliando la zona. Il corteo di auto nere, blindate e impenetrabili, è passato a gran velocità. Obama non l'abbiamo visto ma, come il Colorado in fondo ai canyon, siamo sicure che c'era davvero.

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giovedì 13 agosto 2009

Bluff & Page

Non è uno scherzo, c'è un paese che si chiama Bluff. E noi ci siamo state davvero. L'abbiamo scoperto su google.maps

e scelto perché era un buon punto per visitare la Monument Valley evitando i centri abitati un po' squallidi di Mexican Hat e Kayenta. Bluff è stata fondata dai pionieri e da allora non sembra molto cambiata: ci sono tre motel in stile western, un parcheggio per caravan, un ristorante che prepara solo carne alla brace, una tavola calda dove si fa anche colazione, un negozio di arte navajo che vende cesti e tappeti a partire da 1.400$ e una pompa di benzina con annesso puzzolente general store. Tutto ciò disseminato lungo 2,5 chilometri della statale UT 191. I ristoranti chiudono alle 21,30 e dei trecento abitanti, che da queste parti sono una cifra di tutto rispetto, abbiamo visto solo le case che si sviluppano lungo le 2 strade sterrate parallele alla main street. Un paese che è tutto nel suo nome.
La strada per arrivare alla Monument Valley è di per sè spettacolare: pareti di roccia rossa, collinette di terra multicolori, spazi ampi e formazioni rocciose dalle sagome strane. Poi all'improvviso, dopo l'ennesimo dosso, sembra che la strada lunga lunga e dritta debba finire, dopo un'ampia curva, contro la parete di rocce allineate. Mancano ancora parecchi chilometri, ma non hai dubbi, anche se non hai mai visto un film western per intero, la riconosci: è la Monument Valley.
Poi avvicinandoti godi la nitidezza delle forme, i riflessi del tramonto, il colore intenso della terra; ma quell'immagine lì, la prima, ancora lontanissima e un po' offuscata dal calore, è quella la fotografia epica che appartiene al mito cinematografico di tutti noi. E vederla fuori da uno schermo è emozionante.
La Monument Valley è un parco che si trova all'interno della riserva Navajo. Come tutte le cose gestite dai nativi che abbiamo visto finora, è tenuta abbastanza male, più con l'attenzione a far soldi, che a valorizzare un patrimonio splendido. La visita vera e propria è un po' deludente, si snoda su una strada impraticabile e a ogni sosta, bancarelle con souvenir e gioiellini navajo; l'albergo appena costruito su un' altura, proprio di fronte alle formazioni più celebri, toglie definitivamente ogni dubbio: la valle è un monumento che va gustato da lontano.
Da Bluff abbiamo fatto un salto ai Four Corners, per vedere l'unico punto in cui "quattro stati si incontrano in libertà e sotto Dio" in un incrocio di linee perfettamente perpendicolari. Per entrare si paga un tributo alla nazione navajo e dentro, a parte una pedana circondata da bandiere, non c'è altro da vedere se non il rito a cui, tra grandi risate, si sottopongono gli americani: farsi fotograre con mani e piedi nei quattro stati diversi.

Page, la città successiva, ci accoglie con una sfilza di chiese che si susseguono lungo la strada principale. Ne contiamo almeno una decina, sono tutti edifici anonimi, quasi dei capannoni, con una croce e un cartello che ne illustra l'appartenenza a confessioni diverse. Non siamo esperte e fatichiamo un po' a immaginare le differenze tra i santi del ultimo giorno, i battisti, gli episcopali, i nazareni, e i pastori luterani del deserto. I mormoni dello Utah sembrano sobri al confronto.
Page è il contrario di Bluff: una cittadona di 10.000 abitanti, fondata nel 1957 in occasione della costruzione della grande diga sul Colorado. Immaginate un canyon, di quelli grandi e frastagliati, inondato artificialmente d'acqua: è il lago Powell. Due cifre per dare l'idea: il suo perimetro è più lungo della costa pacifica degli Stati Uniti e dopo la costruzione della diga, ci sono voluti 17 anni (17!) per riempirlo con l'acqua del Colorado che non è proprio un ruscelletto. Ora gli americani vengono a fare vita di mare, si portano dietro il loro motoscafo e vanno a fare il bagno in una delle migliaia di insenature. Le acque azzurre del lago creano un bel contrasto con la terra rossa e desertica del paesaggio e le pareti verticali che ne emergono fanno il resto. Ma la cosa più bella da vedere a Page, siamo qui per questo, è l'Antelope Canyon. Uno slot canyon la cui estremità superiore non è che una fessura da cui entrano i raggi di luce, oltre che i turisti in visita. Quello che si vede standoci dentro, è nelle foto: una sfida titanica tra la magia del sole e quella della terra.

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lunedì 10 agosto 2009

Arches & Canyonlands

Abbiamo visitato i parchi Arches e Canyonlands alloggiando a Moab, una cittadina relativamente grande e piena di turisti. C'è un supermercato come quelli nostri, più distributori di benzina, una decina di ristoranti e perfino due semafori.
Arches National Park si trova su un altopiano a poche miglia dal centro abitato,

dopo l'ingresso si percorre una strada tutta tornanti e si arriva in cima, dove lo spazio acquista profondità in un morbido saliscendi contornato da rocce ovviamente rosse. L'attrazione del parco sono le migliaia di archi naturali e altre bizzarre formazioni geologiche scavate dal vento. E' un parco facile da visitare, ci sono sentieri lastricati che portano dai vari belvedere fin sotto gli archi più famosi, da lì, poi, si snodano numerosi sentieri. E' un parco curioso e scenografico.
Canyonlands, invece, non sembra un parco, sembra piuttosto una regione. L'intervento dell'uomo è ridotto al minimo, perfino i sentieri sono tracciati solo con sassi impilati. Per arrivarci abbiamo percorso decine di chilometri in un altopiano a perdita d'occhio. Il cielo su di noi era nuvoloso e in movimento, questo ha reso ancor più intenso lo scenario che abbiamo trovato quando ci siamo affacciate al primo belvedere. Eravamo in cima a una parete rocciosa che cadeva verticalmente per 300 metri. Sotto di noi si apriva un'immensa pianura se possibile ancora più piatta di quella che avevamo percorso. Già questo sarebbe bastato a mozzarci il fiato, se non fosse che la piana che stavamo guardando era incisa da un ricamo di canyon, profondi altri 300 metri, formati dal Green River che proprio qui confluisce nel Colorado. Il bordo dei canyon era contornato da una striscia di calcare bianco, come a rimarcarne il disegno frastagliato. Per quando si possa aver preparato il viaggio, letto racconti e visto foto, a trovarti davanti tutto questo, non sai se ridere o piangere, e allora puoi solo star zitto e ascoltare il vento.
Sei di fronte a un sentimento drammatico, qualcosa che ha a che fare con la vita e con la morte, con le ere geologiche, con l'azione del tempo infinito, e il tempo tuo. Poi, provando a superare tutto ciò, abbiamo fatto le cose dei turisti: ci siamo affacciate ai vari belvedere, abbiamo camminato sul bordo, ci siamo fotografate il più vicino possibile allo strapiombo; ma sempre con l'occhio indeciso se allungarsi verso l'immensità dell'orizzonte o farsi risucchiare sul fondo di quei canyon, verso l'acqua che non vedi e sai che c'è o che un tempo c'è stata.

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sabato 8 agosto 2009

Scenic Byway

Per raggiungere la meta successiva, la cittadina di Moab, abbiamo deciso di seguire la Highway 12 Scenic Byway, una delle 27 "All-American Road", cioè le strade riconosciute uniche per il loro valore storico o paesaggistico. Qui, come potete immaginare, il merito è tutto del paesaggio.
La strada, che da noi sarebbe classificata come statale, o meglio provinciale, scorre in un'ampia pianura costeggiata da rocce rosse.

Durante il viaggio attraversiamo pochi villaggi caratterizzati da un numero incredibilmente scarso di case, qualche edificio adibito ad attività commerciale: il distributore di benzina, che non manca mai, poi il general store, un'autofficina, l'Unites States Post Office e almeno un motel. Sono centri abitati che contano una popolazione di circa 120, 180 abitanti, l'equivalente di un condominio di medie dimensioni; per intenderci le tre scale di via Consalvo. Il centro più popoloso ha ben 800 anime, ma a noi non sembra più grande degli altri. Lungo questa strada, ma per le altre è la stessa cosa, è un problema fermarsi per sgranchirsi le gambe o mangiare il panino preparato prima di partire. Non c'è un posto all'ombra, e la temperatura dopo le 11 consente solo brevi soste per fotografie imperdibili. Fatichiamo a trovare un albero, solitamente ce n'è uno in una delle tre o quattro traverse della Main Street, così si chiama la Highway 12 quando attraversa il centro abitato.
Dopo il panino, è d'obbligo il giro al General Store della pompa di benzina che ha la triplice funzione di sosta pipì, acquisto di coca cola ghiacciata (che resta tale solo per pochi istanti) e soprattutto di regalarci qualche minuto di aria condizionata gelida e rigenerante.
Dopo una di queste soste un po' disperate, mentre la musica dalla radio cercava di vincere la sonnolenza incalzante, dopo una curva leggermente in salita, si è aperta una valle, che forse è una pianura, forse un altipiano. Siamo state costrette a fermarci al belvedere. Davanti a noi un susseguirsi di collinette, di avvallamenti, di roccia chiara ora con sfumature rosee, ora sul giallo, punteggiata di cespugli e attraversata da una strada serpeggiante come un fiume. Era la strada che avremmo percorso noi di lì a poco, e tanto stupefacente era quel paesaggio, da aver inglobato anche quel nastro d'asfalto che così raramente ci sembra armonico con la natura.
Salire e scendere tra quei rilievi, seguire le curve sinuose per chilometri, attraversare il Calf Creek che dà il nome alla zona, risalire sul versante opposto, lungo la strada quasi deserta, alla quieta andatura dei 50 Km/h, è stato come essere cullati dalla terra. A risvegliarci ci ha pensato l'aria pungente dei 3.000 metri del monte Boulder ricoperto di tanti alberi di tanti tipi diversi che noi purtroppo non sappiamo nominare.
Da lì siamo scese verso la scogliera fiammeggiante di Capitol Reef. Torrey è un paese inesistente, sembra ancora più piccolo degli altri, ma a noi serve solo per spezzare il viaggio verso Moab. Inaspettatamente Torrey ha la più bella Main Street vista finora, larga e ombreggiata da alberi che sembrano antichi; e il miglior ristorante in cui abbiamo cenato. Un giovane chef di tendenza ha aperto qui il Caffè Diablo e prepara piatti di cucina creativa del South West. I clienti sono solo turisti e motociclisti di passaggio. I 171 abitanti di Torrey erano tutti al lavoro nei numerosi motel.
Il mattino dopo, attraversato il Parco Nazionale di Capitol Reef,la roccia rossa ha lasciato il posto a dune di sabbia pietrificata bianche, grige, viola e a noi, per un'ora, è sembrato di essere sulla luna. Poi, per 106 Km solo pianura piatta tagliata dalla strada dritta, a destra e a sinistra montagne rosse offuscate dalla calura, e davanti, ancora troppo lontano, lo svincolo per l'Interstate 70, da raggiungere alla quieta andatura di 80 Km/h.

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martedì 4 agosto 2009

Zion & Bryce

Abbiamo ritirato la macchina dall'autonoleggio di Las Vegas e ci siamo avviate fuori dalla città seguendo la tangenziale di Las Vegas che ci ha portato dritte dritte nel nulla bollente. Solo allora ci è sembrato finalmente di cominciare il viaggio.

Ci abbiamo impiegato tre ore per arrivare a Springdale, il paesino alle porte del parco di Zion e, sfatte dal caldo, abbiamo pensato la stessa cosa dei che diedero il nome alla valle: questo è il paradiso!
Il paesaggio ha il tipico aspetto di un villaggio di montagna: aria fresca, tutto è ordinato, pulito, attrezzato per turisti ed escursionisti: un angolo dell'Alto Adige. Il nostro albergo era un incrocio tra un motel americano e una baita di montagna. Aveva persino il bidet e, cosa ancora più strabiliante, c'erano allegate le istruzioni per l'uso. Guardare per credere.
Nel parco di Zion si entra solo con un bus navetta gratuito; si sale e si scende quando si vuole e dalle fermate ci si avvia lungo i numerosi sentieri. A pensarci bene, forse è un po' meglio dell'Alto Adige.
Zion, abbiamo scoperto che qui lo chiamano Zaion, è un canyon attraversato dalla strada. Lo si visita partendo da fondo valle e ci si inerpica sui sentieri. I panorami che avevamo davanti agli occhi li vedete anche voi nelle foto: sono imponenti.

Il parco successivo, Bryce Canyon, è tutta un'altra storia, tutta un'altra emozione. All'interno di un'ampia pianura si apre un bacino di colonne calcaree modellate dall'erosione dell'acqua, del ghiaccio e del vento.
Lo scenario è inedito, e incanta come solo le meraviglie della natura sanno fare. Le forme e i colori cambiano a ogni passo, si va dal rosso mattone, all'arancione, al bianco. I pinnacoli sembrano ora colonne greche, ora sentinelle poi tizzoni ardenti in un braciere. Un sentiero percorre il bordo del cratere collegando i vari punti panoramici. Ma scendere verso il fondo, lungo sentieri tortuosi e spettacolari, è come inoltrarsi nelle viscere di una creatura magica. Abbiamo costeggiato gli hoodoos (così si chiamano i pinnacoli) e scoperto che a fondo valle, dal terriccio roccioso, si ergono alberi giganteschi spinti in alto alla ricerca di luce e il paesaggio diventa ovattato.
Intorno al parco non c'è niente se non un vecchio ranch, il Ruby's Inn, trasformato in un grande complesso turistico, una sorta di villaggio con negozi, motel, campeggio, pompa di benzina, piazzole di sosta, autofficina, ma anche spettacoli di rodeo, agenzia per escursioni e altro ancora. Quando siamo arrivate in reception ci è sembrato di essere in autogrill sull'Autostrada del Sole ad agosto. Ma il pragmatismo americano, si è rivelato ancora una volta molto comodo: avevamo tutto a portata di mano e la meraviglia di Bryce Canyon a due passi.

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sabato 1 agosto 2009

Las Vegas

Uscire dalle porte scorrevoli dell'aeroporto di Las Vegas è come aprire lo sportello del forno durante la cottura del pane: siamo state investite da un getto di aria secca e rovente. D'altronde la città è in mezzo al deserto e questo è il momento più caldo dell'anno. Ci siamo scambiate uno sguardo allarmato e

siamo tornate dentro. Era ora di pranzo e fermarci a mangiare in aeroporto, nonostante il tintinnio delle slot machine, non era affatto una cattiva idea.
Un'ora più tardi non avevamo scampo e ci siamo buttate. Il tempo trascorso nel minibus che dall'aeroporto fa il giro degli alberghi è stato penoso: il soffio flebile di aria fresca che usciva dai bocchettoni non bastava a stemperare i 42 gradi e passa dell'esterno.
Las Vegas, artificio per turisti, è fatta da una sola strada, The Strip, costeggiata solo da hotel e casinò, che qui sono la stessa cosa. Nelle traverse ci sono solo enormi parcheggi. Dentro gli hotel c'è tutto quello che serve al turista, anzi tutto quello che può indurre il turista a spendere: la zona casinò, i ristoranti, i bar, i negozi, i teatri per gli spettacoli. Ogni albergo è il contrario di un villaggio turistico "all inclusive": qui c'è tutto, ma è "all to pay".
I turisti stranieri scompaiono nella gran folla di americani che sembrano tutti divertirsi molto: hanno un bicchiere in mano a tutte le ore e sembrano proprio contenti di stare qui. Quando non mangiano, non bevono e non giocano, ovvero nelle poche mezz'ore restanti, passeggiano lungo la Strip per andare a vedere le attrazioni degli hotel: vulcani che eruttano, fontane che danzano, assalti di pirati, canali veneziani con gondole e gondolieri e altro ancora. Ci proviamo anche noi alle 7 di sera, ma dopo un isolato abbiamo il corpo che bolle, nella testa riecheggiano i rumori elettronici che fuoriescono dalle hall dei casinò e iniziamo a ondeggiare pericolosamente nel tentativo di schivare le decine di persone che distribuiscono a chiunque passi dei biglietti da visita facendoli schioccare come carte da gioco. Sui biglietti e sulle loro magliette c'è stampato un numero di telefono per chiamare "ragazze tutte per te". E' difficile non sentirsi bacchettone in uno stato che ha legalizzato la prostituzione, e ne fa una buona occasione di business.
Sarà anche per questo, oltre che per il fatto che sembra tutto una trappola, che ci è venuto da pensare a Las Vegas come a una città che potrebbe essere amministrata da Berlusconi. L'idea ci sorride: l'uomo giusto al posto giusto, e per l'Italia un problema di meno.
Riusciamo a vedere uno spettacolo del Cirque du Soleil e questo ci rende più accettabile la permanenza qui.
Nei casinò succede esattamente quello che ti aspetti: le slot sono occupate in prevalenza da donne di tutte le età con una prevalenza di anziane che sembra stiano lì dall'alba a notte fonda: quando la macchinetta fa dling dling dling e ricarica il credito sulla loro scheda fedeltà, tirano un sorso dal bicchiere, pigiano il tasto "Spin" ancora un paio di volte, e poi ritentano la fortuna alla slot accanto. Lo spettacolo è un po' triste, ma non più di quello dei loro mariti seduti al banco di un blackjack il cui croupier è una ragazza virtuale a grandezza naturale in guepiere. (Nota a margine: nei casinò un po' più sordidi del centro città, le ragazze in reggiseno sono vere).
Potremmo star qui ore a guardare i giocatori che, calamitati dalle loro macchinette non si accorgono di nulla; ma la sala è piena di personale che vigila discretamente. Scattiamo solo qualche foto, ma alla fine veniamo sonoramente cazziate per aver fotografato un tavolo da gioco, sebbene deserto.
Anche noi non resistiamo al richiamo e investiamo ben 4 dollari con il risultato che potete immaginare. Poi, prima di partire, valigie alla mano e zaino in spalla, Felix, che aveva trovato per strada un paio di cents, chiaro segno astrale di fortuna imminente, ha voluto tentare la sorte in proprio e con un paio di shots da 5$ ne ha vinti 75$. Abbiamo cambiato il tagliando ad una macchinetta sputasoldi e siamo scappate via, prima che la febbre ci contagiasse.

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